La vita dell'attrice e la carriera stellare: dalla scuola del Piccolo di Milano, con Ornella Vanoni innamorata di Strehler, al David Copperfield in TV con Giancarlo Giannini, Anna Maria Guarnieri e Ubaldo Lay.
Ecco la seconda parte dell'intervista a Laura Efrikian (Qui la prima parte), grande protagonista dello spettacolo italiano negli anni d’oro, il ventennio a cavallo tra la fine degli anni 50 e la fine degli anni 70. Ascoltiamola mentre ripercorre la sua carriera, dalla scuola del Piccolo di Milano agli sceneggiati in TV.
Tu hai fatto la scuola del Piccolo teatro di Milano fondata da Giorgio Strehler.
Com’era lavorare in quell’ambiente? Chi erano i tuoi compagni di corso? Alla luce di quell’esperienza, come vedi il teatro italiano di oggi?
Purtroppo non riesco a seguire un granché il teatro di oggi. Il fatto di abitare in una casa in campagna, fuori Roma, mi impedisce di muovermi la sera per andare a teatro in centro. Non frequento quasi più nessuno dei compagni di corso in quegli anni. Avevo 17 anni quando sono entrata all’Accademia: ci si entrava per concorso, perché era una scuola gratuita. Avevano fatto una serie di prove di selezione, e alla fine eravamo rimasti in 10: io ero la più giovane di tutti.
La scuola era molto seria, coerentemente con il tipo di teatro che facevano al Piccolo. Ricordo con nostalgia le serate e i pomeriggi in cui andavo a seguire le prove degli spettacoli, per imparare. Per esempio la prima rappresentazione in Italia dell'Opera da tre soldi, che debuttò al Piccolo il 27 febbraio 1956. C’era un cast stellare. La regia era Giorgio Strehler, gli interpreti principali erano Tino Carraro, che faceva Mackie; Mario Carotenuto che faceva Peachum, Marina Bonfigli che faceva Polly, Milly che interpretava Jenny, Enzo Tarascio che faceva il capo della polizia. Per la prima era venuto anche Bertolt Brecht.
Dopo quella versione, l’Opera da tre soldi è tornata al Piccolo solo nel 1973: sempre con la regia di Strehler, ma con Domenico Modugno, Gianrico Tedeschi, Giulia Lazzarini, Milva e Gianni Agus. Ancora oggi capita che alla sera non ho voglia di vedere la televisione e allora mi guardo su YouTube Milly che canta nell’Opera da tre soldi.
E tu non canti?
Assolutamente no. Conosco a memoria quelle canzoni, e quando ascolto Milly le vado dietro, ma sono stonata da sempre. Il che è proprio il colmo per una donna che ha un padre direttore d’orchestra, un fratello musicista, sposa un cantante che ancora oggi è un simbolo della musica leggera italiana, e che ha un figlio musicista. Canto soltanto quando sono sola e non mi sente nessuno: altrimenti pensano che sto male e mandano la Croce rossa a prendermi.
Quegli anni per me sono stati un periodo di grande interesse culturale, di grande amore per il teatro, che si portava dietro anche altre cose. Quella del Piccolo era una scuola seria: facevamo lezioni di dizione, ma anche di letteratura. Perché non si può andare sul palco se non conosci Molière, Pirandello, ma anche Ruzzante; Shakespeare non ne parliamo, poi si arriva a Brecht e ad altri nomi moderni importanti. Avevamo anche un’ora di musica con il povero Gino Negri, che con me aveva dei problemi. Era una scuola molto particolare, ma tutte le scuole di questo tipo lo sono. Mia figlia Marianna ha fatto l’Accademia di arte drammatica Silvio D’Amico, a Roma: anche lei ha dovuto sgobbare parecchio, avevano insegnanti di un certo calibro.
Per esempio?
Andrea Camilleri, per dirne uno. Dalla scuola di Roma è uscito anche Luca Zingaretti.
E invece i tuoi istruttori a Milano?
Il maestro di recitazione era Ottavio Fanfani, un attore del Piccolo. Per la musica c’era il compositore Gino Negri, come ho detto prima. Per il mimo avevamo Marise Flach, che era stata allieva di Etienne Decroux, e che poi è stata insegnante anche di Maurizio Nichetti. E’ stata una maestra molto importante, perché abbiamo fatto tantissimo mimo: nell’ambito delle sue lezioni abbiamo fatto addirittura della scherma. Una cosa molto impegnativa. Per non parlare del docente di letteratura, di cui ora non ricordo il nome. Siamo andati avanti sei mesi su un verso di Leopardi, tratto dalla Sera del dì di festa: Dolce e chiara è la notte, e senza vento. Lui sosteneva che se la notte è dolce e chiara, è evidente che non può esserci il vento: e quindi questo apriva la porta a tutta una serie di possibilità interpretative. Ci ha fatto ripetere questa frase migliaia di volte, con tutte le intonazioni possibili. Ci stava uscendo letteralmente dalle orecchie.
Abbiamo letto moltissimo Leopardi, tanto che alla fine avevo una specie di crisi di rigetto e per le tesine di fine corso ho scelto altri autori: ne ho fatta una su Anton Čechov, che è uno dei miei autori preferiti, una su Shakespeare e una su Pirandello. Era una scuola dura, senza alcuna velleità divistica. Durante le lezioni e le prove indossavamo una tuta nera, per essere tutti uguali. Poi andavamo a seguire le prove del Piccolo: naturalmente seduti in ultima fila e senza fiatare. Osservavamo Strehler che faceva lavorare gli attori. E’ stata una grande scuola, di tecnica attoriale ma soprattutto di carattere. Dei miei compagni di corso vedo spesso Marzia Ubaldi, che aveva poi sposato Gastone Moschin, e che ha fatto moltissimo teatro. Poi c’era Francesco Carnelutti, anche lui molto importante nella storia del teatro italiano. Gli altri dopo poco tempo hanno abbandonato lo spettacolo e si sono dedicati ad altre attività. Dal mio corso non sono usciti altri personaggi noti. Due anni prima, invece, c’era stata una storia di cui poi si parlò molto.
E cioè?
Tra gli allievi c’era Ornella Vanoni, che dopo pochi mesi di lezione si innamorò di Strehler: diventando quindi non più un’allieva ma un’altra cosa.
Com’era Strehler?
Un uomo molto affascinante, su questo non c’è dubbio. Un uomo con un grande carisma: soprattutto in scena quando faceva vedere agli attori come interpretare la loro parte. Te lo spiegava, faceva vedere il gesto, il movimento, e poi ti ritrovavi il personaggio pronto. Ti portava a capire il personaggio. Mi ricordo una scena in cui faceva fare un girotondo a un bambino che non esisteva. L’attrice era Giulia Lazzarini.
Lei è molto brava: ha seguito le sue indicazioni alla lettera, anche se Strehler le ha fatto rifare la scena mille volte, e alla fine ne è uscito un pezzo di una bellezza incredibile. C’erano delle scene stupende, luci molto efficaci: puro teatro in una scenografia molto scarna ma efficace. Mi ricordo anche un Arlecchino servitore di due padroni. C’erano una pedana, su cui si muoveva Arlecchino, dei candelabri con candele accese, il sipario e poi nient’altro. E’ uno spettacolo che ha girato il mondo. Mi ricordo che quando è arrivato in Texas, un petroliere voleva comprarsi Arlecchino.
Voleva comprare Arlecchino???
Si, si. Me l’hanno raccontata. Il texano diceva: “Lo voglio portare a casa”. Strehler gli ha risposto: “Guardi, non si può. E’ un attore della compagnia, irrinunciabile”. Si trattava di Ferruccio Soleri, quello che c’era prima di Angelo Corti. Prima ancora in questo ruolo al Piccolo c’era Marcello Moretti. L’Arlecchino di Strehler era uno spettacolo straordinario, fatto di niente, ma che proprio per questo richiedeva performance stellari dagli attori. Servivano veri mattatori.
Anche Angelo Corti era stato allievo di Marise Flach. In scena Corti e prima ancora Soleri facevano cose straordinarie. Bisognava servire i clienti del ristorante: uno era da una parte, l’altro dalla parte opposta. Uno era addirittura fuori scena. Volavano i piatti sul palcoscenico, Corti li afferrava al volo, era anche un giocoliere: insomma era tutto bellissimo. Quello spettacolo aveva un fascino incredibile. Ma era tutto straordinario. Poi spesso le vite private si intrecciavano con il lavoro.
In che senso?
Mi ricordo uno spettacolo: Platonov e gli altri, di Anton Čechov. La regia naturalmente era di Giorgio Strehler. La protagonista era Valentina Cortese, che nel 1960 aveva appena divorziato dal marito americano Richard Basehart, anche lui attore, e si era messa proprio con Strehler: un sodalizio sentimentale e lavorativo durato 15 anni. In questo spettacolo mi era rimasta impressa proprio l’interpretazione di Valentina Cortese: una grande performance teatrale. Strehler l’aveva utilizzata, ovviamente come attrice, in modo straordinario. L’apertura della scena era incredibile.
C’è lei al pianoforte. Vicino al piano, seduto su una sedia a dondolo di bambù, c’è Tino Buazzelli. Silenzio in scena, totale. Ogni tanto lei suona una nota singola al pianoforte. Tlon! Tlon! Buazzelli si muove con la sedia a dondolo, che scricchiola sotto il suo peso. C’erano solo questi due rumori. Una scena portata fino all’esasperazione, ma calcolata con precisione scientifica. Oggi penso che se fosse durata un secondo di più, il pubblico si sarebbe alzato e se ne sarebbe andato via. Dopo un minuto e mezzo così, dalla sedia di bambù esce una voce: Come state, Anna Petrovna? E lei: Mi annoio. Ecco, in questi due minuti c’è tutto Čechov.
Ne stai parlando con grande amore.
Quel periodo è stato vitale, per la mia formazione umana e professionale. Conoscere questi grandi attori, studiare in una scuola così mi ha dato molto: non solo dal punto di vista del mestiere, ma anche della cultura e dell’umanità. Anche allora c’era una carenza culturale pazzesca tra i giovani, come prova il fatto che alla mia selezione eravamo 300 e ne hanno preso solo 10. Certo non era al livello dell’ignoranza di oggi. Nei giochi in tv, programmi come l’Eredità o cose del genere, capita di trovare dei concorrenti che non sanno chi era Cavour, o in che epoca collocare Dante Alighieri.
Sento risposte pazzesche. Non so se la colpa di questa ignoranza diffusa è della scuola o della famiglia, ma di certo non siamo messi bene. All’epoca eravamo messi meglio. Ho letto un articolo sulla conoscenza della lingua italiana nella media della popolazione. Quando sono andata a scuola io, una persona normale che aveva fatto un minimo di scuola, conosceva 200 mila parole; negli anni 80 eravamo scesi a 50 mila; oggi ne usano 500 o 1000 al massimo. Mi rendo conto che probabilmente i concorrenti vengono scelti apposta: un mix di istruiti e di capre, per fare spettacolo. Ma purtroppo non penso che facciano fatica a trovare le capre: non sanno neanche le cose che imparavamo alle elementari, tipo che i Mille sono partiti da Quarto. L’impressione che resta è quella di un’ignoranza terrificante. Con i miei nipoti insisto molto: devono usare più parole possibile.
Quindi oggi vai poco a teatro.
Si, abitare fuori Roma non aiuta. Per vedere un po’ di teatro in televisione devi andare sulle reti culturali della Rai. Ho visto il bravissimo Massimo Ranieri, un amico, fare Eduardo: Natale in casa Cupiello e Filomena Marturano. Questo mi ha fatto pensare a quello che dicevo prima. Eduardo è morto nel 1984, non cent’anni fa: ma i giovani neppure sanno chi è.
Tu hai conosciuto Eduardo?
Non di persona, anche se l’ho visto a teatro molte volte. Ricordo i suoi silenzi, le sue pause, la sua voce, il suo modo unico di recitare. Dicono che fosse molto cattivo, ma non penso che fosse vero. Piuttosto, penso che fosse intransigente: con le persone e con gli attori. Tutti i migliori registi hanno avuto una caratteristica in comune: non hanno cercato la complicità con gli attori. Un vizio di molti attori di oggi, quelli che vanno dal regista e dicono: io questa cosa la farei così.
Una volta una cosa del genere sarebbe stata considerata semplicemente assurda. Avrei voluto vedere Milly che andava da Strehler e gli diceva: Io questa canzone la canterei così. Strehler di risposta come minimo le avrebbe dato della cretina. Come minimo. Anche Eduardo era così: non accettava alcun tipo di consiglio, non erano previsti. Lui voleva che una cosa fosse fatta in un certo modo, e così doveva essere: non si discuteva.
Non hai mai lavorato con Eduardo e Strehler ma li hai visti in azione.
Esatto. Nello stesso periodo avevo fatto degli spettacoli con la regia di Franco Enriquez, insieme a Arnoldo Foà, Ave Ninchi e altri grandi attori. E devo dire che anche Enriquez era tremendo. Ma non aveva quello che a me piace tanto, e cioè il rigore dell’uomo di teatro. Penso che sia una cosa che ho ereditato da mio padre, che era direttore d’orchestra. Non si può suonare il violino come ci pare nella Primavera di Vivaldi, non si può improvvisare. C’è un solo modo di farlo, e il direttore d’orchestra lo deve sapere e deve esigere l’esecuzione da parte dei suoi musicisti. A me piacciono le persone così. Autoritarie, anche. Ma è un’autorità data dal loro sapere. Come Riccardo Muti, che è di quella scuola. Questa impostazione l’ho sempre avuta. Ero molto attenta, molto esigente: anche quando ho fatto la televisione con Anton Giulio Majano.
Alcuni sceneggiati che hanno fatto la storia della televisione italiana.
Si, davvero. Con la regia di Majano nel 1964 ho fatto La cittadella di Archibald Joseph Cronin. L’anno dopo ho fatto il David Copperfield di Charles Dickens, insieme a Giancarlo Giannini, Anna Maria Guarnieri, Ubaldo Lay, Wanda Capodaglio, Carlo Romano, Roberto Chevalier: e ho detto tutto.
Ripetevo le cose più volte perché volevo seguire veramente l’indicazione del regista, e mi sembra di esserci riuscita. Mi sono trovata molto bene: facevo il mio dovere, quello che ci si aspettava da me. Sul lavoro sono abbastanza severa, intransigente. Mio figlio Marco tutto sommato mi deve molto, sotto questo punto di vista. Quando aveva 5 anni mio padre ha scoperto che aveva l’orecchio assoluto, e ha detto: bisogna mandare subito questo bambino a scuola di violino. E così Marco ha fatto 10 anni di scuola di violino con una maestra bravissima ma anche lei molto esigente. Oggi canta e suona benissimo il violino e anche altri strumenti, ed è anche lui molto intransigente sulle cose da fare.
FINE SECONDA PARTE
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